Elisabetta Sgarbi

Principesca e regale nella sua radiosa essenza, nel cui ardito divenire è sempre latrice di nuove dimensioni e nuovi possibili linguaggi. Sai essere crocevia di numerosi occhi che non solo sai accogliere e promuover nei loro molteplici talenti, ma anche reinterpretare nel gusto di una sensibilità che palpita sempre di nuova grandezza.

INTERVISTA

1.Il tuo lavoro è bruciante sinestesia , luogo di incrocio di più discipline capace di portare la sensibilità dello spettatore su un’altra dimensione percettiva.Ci sono film e opere di video arte che pur affondando il lavoro su grandi movimenti di camera , creano immagini senza movimento. Il tuo lavoro usa piani sequenza più lunghi eppure ogni istante è puro cinema , inteso nel suo senso etimologico e cioè “movimento”. Come nasce questo stile?

E.S. : Credo che ciò che caratterizza il cinema in quanto tale sia proprio il “movimento”. Delle immagini innanzi tutto, ma anche delle parole, che nell’istante in cui divengono cinema, parte di un progetto filmico, acquistano una dimensione particolare che in “natura”, diciamo così, non hanno. Per questo, ho cominciato la mia esperienza, il mio cammino nel cinema e col cinema amplificando la parola, fino a concepire l’idea di un “teatro di parola”: il modello è “Notte senza fine”. Poi, continuando la via tracciata, mi sono avvicinata all’arte sacra, non solo per “commentarla” attraverso parole e immagini, ma con l’obiettivo di “ricreare” attraverso l’occhio mobile della macchina da presa e opportuni movimenti e prospettive di visione, un autentico dialogo con le opere, trattandole quasi come fossero persone. Nei tre i film che ho realizzato, sui Compianti dell’Emilia Romagna e sui due Sacri Monti di Varallo e del Cerveno, ho cercato di mostrare come il cinema e la sua tecnologia possano far “recitare le statue”, rendere vivi i volti, i corpi. Volevo mostrare l’invisibile, che si può cogliere, credo, proprio nel particolare, in cui si riflette un senso che va al di là del dato scultoreo. Con una guida illustre come quella di Giovanni Testori, ho ripercorso un cammino fatto di ricordi personali, di frammenti visivi illuminati dalle idee. Ma alla radice di tutto vi è appunto l’esperienza unica, resa possibile dal cinema, di una estasi del vedere, che affonda le sue radici nell’unità di parola, immagine e musica.

2.Ho letto sul volume “Il pianto della statua ” una frase di Lessing che mi ha colpito molto:”ma fecondo è solo ciò che lascia libero spazio all’immaginazione”. La cosa che ho sempre amato del potere metafisico dell’immagine impressa su tela o delle sculture , è l’infinita potenzialità che danno allo spettatore di fantasticare ed emozionarsi (comprendo il morbo si Stendhal!).Quando hai iniziato a dialogare con le parole inespresse ma presenti nelle opere d’arte?

E.S. : L’inespresso è la fonte di ogni attrazione e interesse per le opere d’arte. Quando per esempio vidi, da ragazza, la grande Pala di Isenheim di Gruenewald, rimasi sconcertata e provai una sensazione di forza ma anche quasi di angoscia di tale intensità da obbligarmi a distogliere lo sguardo dalla figura del Cristo. Da allora, ho cercato di ritrovare le fonti di quell’esperienza assoluta, studiando la luce nelle opere d’arte, la magia di una visione concentrata e il modo di restituire tutto questo attraverso lo sguardo “raddoppiato” del cinema. Uno sguardo che contiene in sé l’esperienza unica della scoperta, dell’illuminazione, proprio come si verifica nelle accensioni mistiche. Se si ha a che fare con l’arte sacra, questa prospettiva balza in primo piano, ma io penso che sia una componente fondamentale di ogni lavoro cinematografico, in una ampia gamma di sfumature. L’immaginazione si è trasferita al potere del cinema, e il cinema sempre più tende a convogliare esperienze che provengono da diversi saperi, che hanno tutti un riferimento al mistero (perché è tale, in fondo) di una fantasia creatrice, umana ma aperta a un assoluto che continuiamo ad avvertire in noi. Un assoluto che non si sa come definire, ed è allora l’intreccio di parola, immagine, musica a fare da ponte, ad alludere a tale invisibile.

3.Il tuo primo amore è stata l’immagine o la parola? A quale delle due affideresti il potenziale più eversivo?

E.S. :Io penso che alla base di tutto il nostro operare, in qualunque campo, ci sia un originario rapporto dialettico tra parola e immagine. Il nostro mondo è fatto così. Poi si sceglie un percorso in cui uno dei due elementi acquista la preponderanza. Direi, per ciò che mi riguarda, che la parola, soprattutto quella poetica e letteraria in genere, sia stata la spinta che ha acceso la volontà di andare oltre, anche verso il silenzio, come accade nelle fotografie di Luigi Ghirri, a cui ho dedicato un film. Mi sono poi resa conto del fatto che anche la letteratura ha un potenziale visivo nascosto, e di qui sono partita, cominciando un cammino che ha portato infine all’arte sacra, riletta con gli occhi “dilatati” ed estasiati, vorrei quasi dire, del cinema. Tutto si tiene, in realtà, questo è forse il segreto.

4.Amo il tuo modo di affrontare il processo artistico. Un corpus a più livelli che fa pienamente intuire che si può vivere come esseri umani a più dimensioni nonostante il tentativo di unificazione culturale che è in atto da decenni.Cosa consiglieresti a tutti quei giovani che desiderano far prevalere il proprio desiderio creativo sulla logica della vendibilità?

E.S. :Poni una questione quasi epocale, non è facile rispondere. Detta in due parole: il desiderio creativo precede la stessa espressione, ma quando si vuole, appunto, esprimere qualcosa entra in gioco il momento della comunicazione, e questa ha i suoi tempi, i suoi mezzi, e soprattutto è un fatto intersoggettivo. Il problema è comunicare ciò che è incomunicabile, cosa che si riesce a fare per allusioni, in modo obliquo. Il cinema, per esempio, è un’arte obliqua in questo senso. Dice e non dice, sfruttando il potere evocativo, insieme, di parola e immagine. Si tratta di rendere fruibili queste ultime a tutti, o perlomeno al maggior numero di persone, ognuna delle quali, poi, reagirà come vuole, a seconda della propria personalità e capacità ricettiva.
Personalmente, non mi sono mai posta il problema della vendibilità di ciò che realizzo. Piuttosto, mi sono impegnata affinché riuscissi a esprimere quel che volevo esprimere, nel modo più autentico possibile. La mia esperienza in casa editrice mi ah insegnato a credere nella originalità e nella autenticità dei talenti – che se sono tali, trovano la loro strada.

5.Sono davvero curiosa di sapere la genesi della Milanesiana .Da quali desideri e intuizioni è nata?

E.S. :E’ nata da un insieme abbastanza casuale di incontri, di scambi di idee, richieste. Di fronte alla richiesta di creare, per la città di Milano, un’iniziativa culturale, ho pensato di voler e dover comunicare soprattutto l’idea che il sapere, oggi, non è più un fatto sacrale, che separa, che allontana, ma un’esperienza da condividere e alimentare con sguardi diversi, nella convinzione che non c’è un unico sapere, ma un insieme di esperienze conoscitive anche distanti l’una dall’altra e tuttavia pronte a essere messe a confronto, per riflettere e divertirsi insieme. Cultura come lavoro, come gioco dell’intelletto, come disponibilità alla sorpresa e alla novità, come capacità di ascolto. Tutto questo è il magma da cui è nata la Milanesiana. E a distanza di più di un decennio, direi che questa intenzione originaria si è rivelata giusta, produttiva.

6.Ad oggi se dovessi guardare il tuo cammino , qual’è stata la qualità che ti ha aiutato a non smettere mai di andare avanti ed essere così piena di progetti e iniziative artistiche?Per noi sei un bellissimo esempio …

E.S. :Credo si debba essere ostinati nel perseguire le proprie idee, quelle profonde che ci accompagnano per una vita intera. Se vi si unisce un certo coraggio ideale, allora il gioco può iniziare. Forse il metodo consiste nel non avere metodi predefiniti, ma nel lasciarsi guidare da un Sé che agisce al riparo di noi stessi. Una faccenda complicata, che sa un po’ di alchimia.

7.Quale è la qualità che apprezzi di più in un collaboratore?E in un amico?

E.S. :In un collaboratore, la voglia di credere a quello che si fa insieme, sul serio. E in un amico, la fiducia reciproca, senza la quale non c’è nulla ma solo l’estraneità che continua purtroppo a governare la nostra epoca.